Il dharma, sostegno dell’universo

  La civiltà moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia: fra tutte quelle che conosciamo essa è la sola che si sia sviluppata in senso puramente materiale, la sola che altresì non si fondi su alcun principio di ordine superiore.Tale sviluppo materiale, che prosegue ormai da diversi secoli,  è stato accompagnato da un regresso intellettuale che esso è del tutto incapace di co mpensare.

René Guénon, La crisi del mondo moderno

   L’uomo moderno è confuso, privo di punti di riferimento stabili e precisi che gli consentano di navigare quietamente fra le onde della vita, colmo di angosce e timori apparentemente insormontabili, fragile ed instabile nella psiche e pietosamente stremato da nevrosi di varia natura ed origine, che gli sottraggono, assorbendole occultamente, ingenti energie; e si ritrova anche tristemente isolato ed incessantemente sballottato e trascinato verso ignote direzioni da tragici ed incontrollabili eventi e da idee aberranti impostegli da individui più forti e prepotenti che, come una tempesta di venti impetuosi, lo travolgono e lo costringono a naufragare, spingendo inesorabilmente alla deriva gli irriconoscibili resti della sua fragile imbarcazione.

    L’uomo della Tradizione, che basa la propria vita su di un insieme di valori appunto tradizionali, aveva ed ha tuttora una visione cosmogonica: vede e comprende l’universo, ed è quindi in grado di individuare con precisione e certezza la propria posizione nella vastità della manifestazione cosmica. L’uomo moderno, al contrario, ha perso questi punti di riferimento e, paradossalmente, pur avendo fatto passi da gigante nel campo della tecnologia, in particolare nel settore delle comunicazioni, incontra serie, quasi insormontabili difficoltà nel comunicare con gli altri e con sé stesso.

    Perduta gradualmente la visione organica della realtà, la coscienza della sua inscindibile interezza, della connessione fra le parti e il tutto, si è immerso nello studio ostinato e reiterato dei frammenti, delle micro-realtà ma scisse dall’insieme. Pur essendo diventato capace d’inventare microscopi e altri potentissimi strumenti di indagine,[1] deve alla fine riconoscere con stupore, sgomento e persino con una punta di amarezza, che la natura materiale, come prendendosi gioco di lui, esce sempre e comunque indenne da questa impari lotta per conoscere. La Natura è infatti paragonabile ad una scatola cinese: una volta scoperta una realtà se ne scorge subito un’altra, dalla prima racchiusa.

    L’uomo moderno rischia quindi di andare incontro ad uno smarrimento traboccante d’angoscia, un sottile ma diffuso “mal di vivere” che si radica sempre più profondamente ed acremente negli animi (soprattutto dei più giovani) e che si aggrava una volta scoperta la mancanza di risposte ad ampio respiro da parte delle varie religioni, le quali spesso impiegano le proprie enormi energie e risorse più nella ricerca di vasti consensi popolari, che nel dare risposte soddisfacenti ai tormentosi quesiti sul senso dell’intera vicenda cosmica, focalizzando al contrario la gran parte dei loro interessi, , sulla sola sfera antropologica, cioè sull’uomo e sulle sue problematiche. Con atteggiamento riduttivamente antropocentrico, si adoperano quanto più possono per elaborare fin nei minimi dettagli una politica per l’uomo, con intricati (e spesso irrealizzabili) piani economici e sociali, trascurando purtroppo una semplice verità di fondo: l’uomo, se non è in grado di individuare sé stesso nel suo contesto socio-cosmico e se non conosce sé stesso, non essendo in grado di percepirsi nell’essenza, nella realtà, non potrà fare nemmeno un progetto serio per il proprio divenire.[2] Risulta quindi necessario delineare con la maggior precisione possibile la cosmogonia o disegno universale, e l’escatologico fine dell’esistenza.

    Del progetto universale i Veda tracciano un disegno dai contorni estremamente ampi; cominciano infatti col descrivere i quattro obiettivi della vita umana evoluta[3]; dharma, artha, kama e moksha per raggiungere i quali la persona di buona qualità articola i propri sforzi e organizza le proprie risorse al meglio. L’arte della vita consiste nel conseguirli e viverli in maniera equilibrata, facendoli diventare tutti, uno dopo l’altro o contemporaneamente, una realizzazione di successo.

    Dharma è l’Ordine cosmico, la Legge di Dio, il volere del Signore, l’armonia, la sintonia con tutto ciò che vibra, la forza che tutto sostiene, il principio vitale e le leggi che lo mantengono. Senza dharma i pianeti non potrebbero mantenersi nelle loro orbite e noi non riusciremmo neanche a respirare se cessasse il nostro rapporto col dharma.

Dharma è anche la religiosità, senza la quale non si potrebbe portare a compimento la benché minima azione, è l’acquisizione di quella pietà minima, di quei buoni sentimenti minimi che ci permettono di affrontare la vita e che andranno poi espansi fino al loro massimo; ne occorre comunque un minimo per vivere in mezzo alla gente, per vivere nel creato e fra le creature tutte.

    Col termine sanscrito bhuta, vogliamo in questo contesto indicare l’essere creato; la radice bhu infatti significa sia ‘essere’ che ‘divenire’ ma, se si  aggiunge la desinenza ta, significa ‘creato’. Ma se l’anima è immortale[4], chi è ad esser creato? I corpi, mentre il principio vitale, l’atman, non viene creato: né nasce né muore.

Tutte le creature nascono e muoiono solo apparentemente; in realtà ciò che nasce e che muore sono i corpi, quegli involucri costituiti di materia (prakriti) che l’essere immortale abita e che dall’essere rimangono sempre e comunque distinti e distanti. Nella Bhagavad-gita Krishna afferma che l’ottuplice materia[5], che noi percepiamo come forme e nomi, è separata da Lui[6]; e anche da noi, possiamo aggiungere. Organi, tessuti e cellule sono aggregati di materia separata dal nostro vero essere. Per fare chiarezza in questo ambiente alienato, in cui masse ottenebrate, colte da terribili crisi di identità, credono di essere il corpo, cioè si identificano totalmente con la prakriti, occorre il dharma.

    Il dharma fornisce alcune direttive fondamentali: yama e niyama[7], per vivere consapevolmente in qualunque luogo ma soprattutto in quelli la cui atmosfera sia stata resa “incandescente” dalla passione (rajo-guna) e tenebrosa dall’ignoranza (tamo-guna)[8]. Quando la coscienza del sé si sviluppa nella maniera corretta, cioè nel dharma, per cui l’individuo diventa dharmya, portatore di dharma o sostegno del dharma, è anche ‘sostenuto’ dal dharma. In un passo del Mahabharata[9] viene affermato con forza che chi sostiene il dharma è dal dharma sostenuto, mentre chi calpesta il dharma viene dal dharma schiacciato.

    Col sostegno del dharma si può conseguire il secondo obiettivo: artha, ossia la prosperità economica, che di per sé non ha nessun connotato negativo[10], a meno che non comporti un agire volgare che abbrutisce il suo autore fino a fargli dimenticare i doveri prescritti, quelli che conducono alla finale realizzazione spirituale. Gli shastra[11] consigliano di conseguire questo scopo perché risulta indispensabile procurarsi lecitamente i mezzi per potersi incamminare sulla via della perfezione; quando invece il ricongiungimento col Divino sarà diventato stabile e definitivo, e solo allora, non ci sarà più bisogno di sforzi specifici per artha: il Signore provvede direttamente.

    Tutto dipende quindi dall’aver fondato la propria vita sui principi del dharma, la regola celeste, la legge divina, l’Ordine sovrano che tutto mantiene. Osservando con attenzione i cicli naturali, possiamo scorgere la presenza di quest’Ordine divino: gli alberi tornano a fiorire regolarmente nella stessa stagione; i giorni e le notti si avvicendano da millenni con ritmo inalterato; il sole non abbandona mai la sua orbita perché, se la mutasse allontanandosi seppur di poco, si verrebbero a formare ghiacci di dimensioni colossali che ricoprirebbero l’intera superficie terrestre; e se si avvicinasse, modificando la propria orbita anche solo di un impercettibile tratto, andrebbe tutto a fuoco, l’acqua evaporerebbe, facendo scomparire la vegetazione e tutto ciò la cui sopravvivenza deriva dall’acqua. E’ il dharma che mantiene il sole e tutti gli astri nella loro orbita e che permette la vita sui pianeti; e la fonte del dharma è l’Essere sovrano che, per mezzo del dharma, stipula un patto equo con tutte le creature senza favorire nessuno o penalizzare qualcuno. E’ solo in base al modo con cui ci rapportiamo al dharma, infatti, che dovremo fronteggiare le conseguenze delle azioni da noi compiute, sia in positivo che in negativo. E’ questo il principio fondamentale che regge la legge del karman, la rigorosa legge eterna della remunerazione delle azioni.

    Perciò l’uomo della Tradizione persegue lo sviluppo concreto e tangibile dei princìpi fondamentali del dharma, sforzandosi costantemente e alacremente di applicarne nella vita quotidiana gli assunti teorici, non riconoscendo nessuna reale importanza al filosofare fine a se stesso, avulso dalla realtà ed incapace di liberare l’essere dal problema di fondo dell’esistenza incarnata: la sofferenza. Ricerca quindi un’intima ed autentica interiorizzazione delle leggi del dharma e la loro espressione genuina sia nel pensare che nel parlare ad altri, sia nel commentare gli eventi e i mutamenti che si susseguono nella società e nella natura che nell’agire.

    Dopo il conseguimento di artha sulla base del dharma, si passa a kama, termine col quale vogliamo qui indicare la ricerca del piacere, del gioire. Se queste gioie vengono da artha, cioè se non sono state ricercate con i mezzi altrui ma con i propri, e se questi mezzi sono stati procurati sulla base di dharma, di regole morali, etiche e spirituali[12], allora sorge la gioia, il senso di soddisfazione che segue alla realizzazione del piacere. Per essere più precisi va detto in tal caso che la ricerca del piacere cessa di essere ossessiva e non condiziona più la mente dell’individuo al punto da indurlo a fare scelte sbagliate pur di ottenere stimoli meramente sensoriali. Quando conseguiti in armonia con l’Ordine divino i cosiddetti piaceri sono anch’essi potenzialmente in grado di condurre l’uomo alla riflessione e gradualmente al distacco, per poi consentirgli di dedicarsi unicamente, con quiete e lucidità, al perseguimento del quarto degli scopi che i Veda indicano tipici dell’uomo evoluto: moksha, la liberazione definitiva dalle illusioni, dall’identificazione con la materia e dagli attaccamenti mondani, cioè da quelle che sono le sorgenti del dolore.[13]

    Pertanto, dare all’uomo una cornice ampia, universale, informazioni non solo sulla dimensione dello spirito ma anche sulla varietà della manifestazione cosmica e, come abbiamo spiegato poc’anzi, rivelargli il dharma e le sue regole fondamentali, tutto ciò significa fornirgli da subito gli strumenti essenziali per progettare, guidare e quindi determinare il proprio avvenire. La messa a disposizione di questi strumenti costituisce la più elevata attività umanitaria, che però arreca benefici non solo all’uomo, dato che il dharma va a beneficio di tutte le creature e dell’ambiente, inteso come micro e macro-atmosfera.

    Una visione dell’universo basata su di una concezione spiccatamente e dichiaratamente antropocentrica sarebbe una riduzione a dir poco inquietante, che implicherebbe una drastica (seppur non totale) riduzione delle migliori capacità e potenzialità di realizzazione spirituale.

L’uomo, infatti, non ha una posizione così centrale. La concezione vedico-vaishnava dell’universo è teocentrica: è Dio il motore dell’universo. E’ il supremo, dolce desiderio del Signore che provvede a tutto. E se tutte le creature, in particolar modo l’uomo, ponessero il Signore al centro delle proprie attenzioni, della propria cura, dei propri pensieri, delle proprie parole, tutto ciò che vorrebbero ottenere si presenterebbe quasi spontaneamente, con difficoltà ridotte in proporzione a quanto si saranno concentrate nella contemplazione di Dio; e tutte le azioni così compiute andrebbero a beneficio non solo degli uomini ma, lo ripetiamo, di tutte le creature.

    Al contrario, se in una sorta di ossessione antropocentrica e quindi in un ennesimo feticismo di specie, l’uomo fosse portato a considerare degna di cure ed attenzioni soltanto la ‘propria’ specie, non sarebbe neanche in grado di mantenere in salute questo pianeta, divenendo causa di continue e gravi crisi ecologiche, dato che l’equilibrio ecologico si può mantenere solo a patto che ci si adoperi per il benessere di ‘tutte’ le creature, lasciando che ognuna di esse esprima in piena libertà la propria natura.

Certo l’uomo viene considerato sovrano sulle creature, ma il Sovrano vero in realtà è Dio, sovrano anche sull’uomo. L’uomo ha il dovere di far da guida alle creature meno intelligenti ed evolute, ma ciò significa assegnare un ruolo a ciascuna di esse senza abusare di nessuna, altrimenti non più di guida si tratterebbe bensì di sfruttamento.

E’ quindi urgentemente necessario rivedere con serietà i concetti stessi di storia, di progresso e di evoluzione, di sociologia, di benessere e di economia.

    Pensare che gli esseri umani siano gli unici cittadini a pieno diritto del pianeta è troppo riduttivo; dovremmo estendere il concetto di habeas corpus anche alle specie animali. Per quale ragione dovremmo limitare l’amore, di cui spesso si parla, alla sola umanità? Porre l’umanità al centro dell’universo è malattia tipica della filosofia moderna.


[1] Ci riferiamo, qui, non solo al riduzionismo, ma anche agli “specialismi” che tanto caratterizzano la vita culturale dell’Occidente moderno.

[2] Con ciò non intendiamo disconoscere l’insieme dei valori etici e spirituali conservati e promossi dalle religioni storiche (il che sarebbe in contraddizione con la necessità di riferirsi a un sapere tradizionale, di cui prima dicevamo), né sminuire l’importanza delle loro azioni sul piano sociale; semplicemente sentiamo la necessità di un’integrazione, di un completamento e rifinimento dei campi d’azione.

[3] In sanscrito catur-purusartha.

[4] Vedi Bg II.20: Per l’anima non c’è nascita né morte. Esiste e non smette mai di esistere. Non nasce, non muore, è eterna, primordiale, non ebbe mai inizio e non avrà mai fine. Non muore quando il corpo muore.

[5] Vedi pag. 73.

[6] Cfr. Bg VII.4.

[7] Regole che compaiono in tutte le Scuole astika, quelle cioè che accettano i Veda come Scritture rivelate, in particolare nello Yoga-darshana, Scuola la cui fondazione viene tradizionalmente attribuita al saggio Patanjali, autore dei celebri Yoga-sutra, testo capitale della Scuola stessa.

[8] Due dei tre guna; vedi paragrafo ‘Il triguna e il karma’, pag. 79.

[9] Adi Parva, capitolo 60.

[10] Tradizionalmente, il denaro, e le ricchezze in generale, sono una manifestazione, nel mondo degli elementi, di Shrimati Lakshmidevi, eterna consorte ed energia interna (antaranga-shakti) di Shri Vishnu, Dio-Persona.

[11] Lett. ‘precetto, insegnamento’, in particolare quello contenuto nei testi sacri, sia Shruti (Rivelazione) che Smriti (Tradizione). Lo Shastra sta alla Shruti come l’albero sta al proprio seme. [Le maggiori Scuole di pensiero nell’ambito della Tradizione vedica delineano il metodo per acquisire la conoscenza indicando tre principali strumenti cognitivi (pramana): pratyaksha (percezione sensoriale), anumana (deduzione) e Shabda (testimonianza orale proveniente da una Tradizione o Autorità). Delle tre, la terza è tradizionalmente considerato il mezzo più autorevole, quello che consente anche da solo di conseguire il sapere, sia fisico che metafisico.]

[12] Indicando con ‘morali’ l’azione nel mondo degli elementi; con ‘etiche’ il concetto di ciò che è bene e di ciò che è male; e con ‘spirituali’ la volontà determinata di volgere l’azione alla liberazione, moksha.

[13] Secondo la Scuola Gaudiya Vaishnava di Shri Caitanya Mahaprabhu, esiste un’ulteriore tappa, successiva persino alla liberazione: prema, l’amore per Dio, definito anche param-purusartha o supremo obiettivo umano.

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